Dove sei finito mio piccolo principe?

«Sai… il mio fiore… ne sono responsabile! Ed è talmente debole e talmente ingenuo. Ha quattro spine da niente per proteggersi dal mondo…»

Tanti anni a domandarmi se la pecora avesse mangiato il fiore, tanti anni a domandarmi se il piccolo principe fosse tornato a casa, tanti anni a sentirmi deridere dagli amici perché ho avuto spesso la testa per aria, tanti anni a ripetere che “sono solo un po’ stanco”, “sto pensando a cosa mangiare stasera”. Già, ho sempre tenuto gli occhi appesi al cielo mentre passeggiavo sul mondo: ho pestato cacche, mi sono sporcato su delle pozzanghere, mi sono scontrato con mille persone, ho sbattuto il muso su tanti pali, ho attraversato la strada senza guardare il semaforo. Avrò mica perso quel briciolo di sanità mentale che mi è rimasta? O, forse, ho proprio trovato la mia più grande e luminosa ragione di vita? Ho la sensazione che sto osservando qualcosa che non mi è affatto estranea. Ieri, mentre facevo su e giù per la piccola via dissestata che costeggia la mia casa in montagna, osservando gli alberi ingialliti di un autunno appena sbocciato, mi sono tornati in mente i suoi capelli dorati. “Eccola lì la mia luce”, dissi a me stesso, “ecco il colore che illumina da sempre la mia anima e che mi fa essere più che apparire. Ma… cosa è esattamente la rosa che anche io tengo in una campana di vetro da quando ho conosciuto il piccolo principe?”. Continuai a camminare. Lasciai che il mio sguardo si nutrisse di qualsiasi dettaglio fosse affamato. Mi sentii ingordo di colori, di riflessi, di prospettive, di ombre, di forme, di consistenze, di profumi, di parole, di emozioni, di istanti, di vuoto e di eccesso. “Cosa è la mia rosa?”, fui perplesso ma percepii che la risposta non era poi tanto distante; avrei voluto che il piccolo principe si materializzasse di fronte a me per aiutarmi. Tornai indietro, tornai a casa e mi sedetti sul primo gradino dell’uscio. Di fianco a me, sul lato sinistro del vialetto, c’era la mia rosa piantata sul terreno e protetta dalla campana di vetro. La osservai pensieroso. Come un matto che parla al vento le chiesi di darmi un cenno, le feci una smorfia, poi una linguaccia, bussai sul vetro e poi, dopo un po’, la mia mente si bloccò su di un fermo immagine; mi resi conto di una cosa mentre un piccolo brivido mi attraversò la schiena risalendo fin sulla testa. Sgranai leggermente gli occhi e scivolai giù dal gradino sedendomi proprio di fianco a lei. La liberai delicatamente da quella grossa e pesante boccia di vetro. Mi misi a piangere ed ogni lacrima, dopo aver attraversato il mio viso, cadde sui suoi petali rossi; qualcuna ridendo si tuffava per terra usandoli come trampolini, altre si lasciavano andare felici scivolando dentro al cuore di quel fiore meraviglioso. “Ho capito! Finalmente ho capito cosa sei, mia dolce rosa.” In quell’istante compresi che lei è la mia vita ed io sono la pecora da cui ho sempre tentato di proteggerla.

Scritto e pubblicato il

da Marco Placido Stissi (alias “

“)

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